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Il caldo insopportabile mi fece svegliare prima del solito. Come ogni mattina usai la doccia, bevvi il mio caffè nero e scesi a comprare il giornale.
“Chissà di quale strage mi informerà stamani «il Tirreno»”, pensai ridacchiando.
Inspiegabilmente, quasi come se avessi aspettato da sempre quel momento, aprii il giornale verso la fine della cronaca cittadina.
Stavo andando a leggere i primi risultati dell’esame di maturità.
“Ma che cavolo sto facendo?”, cercai ragionevolmente di pensare.
Si, perché non c’era un motivo ben preciso per quel gesto: io non avevo nessuno per cui potesse interessarmi l’esito dell’esame, e soprattutto… la scuola non mi era mai piaciuta.
La cosa che riuscivo a spiegarmi ancora meno, era il fatto che fossi andato direttamente a consultare un elenco di nomi, all’apparenza sconosciuti, ma che di certo dovevano aver attirato la mia attenzione.
Leggo.
Baù, Baroncini, Crespi… Ondini…
Ondini? Ma se in tutta Italia esiste solo la mia famiglia che porti quel cognome, come può essere un caso di omonimia? Ma che ci fa il mio nome in una lista di promossi ad un esame di maturità? E poi…a me la scuola non è mai piaciuta.
Feci mente locale e cominciai a ricordare che durante la notte, complice forse il caldo o la pepata di cozze che mi ero candidamente divorato la sera prima, avevo fatto un sogno strano.
Più pensavo e più, stranamente, riuscivo a ricordarmi di quel sogno tanto strano quanto palpabile.
Si dice che i sogni si formano durante la fase rem del sonno, una fase relativamente breve del nostro riposo. Allora per quale strana ragione il sogno, man mano che passavano i minuti, cominciava a farsi sempre più dettagliato nella mia mente? E soprattutto perché, ignorando completamente il labile tentativo di pensare ad altre cose, la mia mente cercava dettagli e sensazioni sempre più precisi?
La mia inconscia decisione era presa; dovevo assolutamente cercare di addormentarmi di nuovo o di sforzarmi di ricordare quel sogno. Optai per la prima soluzione. Molto più comoda.
Avete presente quanto può impiegare una persona ad addormentarsi, quando l’imposizione supera di gran lunga la necessità? Dieci minuti circa. Interminabili.
Poi il corpo si fece più rilassato, e la scena mi comparve davanti. Ero proprio io, lì davanti al cancello di una scuola. Ma che cavolo ci facevo? Doveva essere una di quelle “patologie” da bacio perugina, della serie l’es che fa a pugni col super-io, o qualcosa di simile. Mi improvviso psicologo: forse la scuola mi ha traumatizzato a tal punto da avermi fatto cadere in un transfert pseudolipodulgisico. Deve essere proprio un sogno… mi invento anche i paroloni strani.
Sono curioso, e decido di proseguire nella mia ricerca. Distinguo nitidamente i lineamenti di coloro che dovrebbero essere i miei compagni di classe. Vedo anche delle linee femminili per niente male, ma mi rendo anche conto che non devono far parte della nostra stessa classe, visto il modo con il quale non ci guardano. Il bello è che vedo le scene come proiettate in una sala cinematografica, un film nel quale sono al tempo stesso attore e spettatore. Decido di mettermi comodo e di godermi lo spettacolo.
C’è un’atmosfera strana per essere una scuola. Parliamo anche di argomenti scolastici, ma senza il terrore negli occhi, facendo domande, spesso… addirittura interessanti. Che in questa scuola facciano uso di qualche tipo di droga sintetica che paralizzi le capacità emotive degli studenti? Mah… è sempre più strano. Mentre siamo sui gradini si apre il cancello elettrico ed entra, trionfante, la jeep di una professoressa. Il mio primo pensiero: “adesso ci nascondiamo, che se poi dovessimo fare brucia, almeno la prof. non ci ha beccati”. Quello più anziano esordisce: “toh, ecco Savi”.
Ecco Savi? Savi ad una professoressa? Mi convinco che per una serie incredibile di circostanze, l’anziano deve averle salvato la vita un giorno, per cui adesso può permettersi certe libertà.
La prof. ci arriva davanti (sento già il cazziatone scorrermi lungo la schiena), ci saluta con un gran sorriso (sembra che lei sia sempre sorridente, o almeno quasi sempre), e si mette a parlare dei suoi cani, di piscina e di una non bene precisata cena a base di salsicce. Poi: “Bimbi, quando avete finito ci si vede in classe”. Boh???!!!
Sono sempre più allibito, ma la situazione comincia a piacermi. E’ la conferma che non può che trattarsi di un sogno, anche perché… a me la scuola non è mai piaciuta.
Entriamo in aula, o meglio, in laboratorio informatico presso il centro di calcolo. Già, perché pare proprio che in questa giostra di fantasie, mi sia andato ad iscrivere niente di meno che ad informatica. Si presenta in classe un signore alto, con la faccia compita. Ci siamo, questo è proprio un professore. In effetti si tratta del professore di sistemi, e né la faccia seriosa, né la voce profonda con un preoccupante intercalare centro-meridionale, fanno presagire niente di buono.
Silenzio di tomba. Però sembra che i miei compagni non si preoccupino molto di quella figura inquietante, ed i più sono collegati alla rete della scuola per controllare la propria casella di posta. Il docente fa un accenno all’ultimo argomento trattato (la fork?) e, incredibile anche pensato in sogno, parto io. “Professore…come procede il suo ultimo quadro? Perché non ci mostra qualcosa dei suoi lavori?”. Adesso quell’omone, prende il me del sogno, e mi disossa dalle urla. Attenti, eh…ci siamo.
Ma che ca@@...?
E’ come pronunciare “apriti sesamo”, è come strofinare sulla lampada magica, è come dire “sim-sala-bim”. Sul volto del professore si disegna un bellissimo sorriso (vabbè, un sorriso), e gli occhi si accendono come due falò su una spiaggia. E’ entusiasta e si vede. Parte con una sua dissertazione sull’uso dei colori nella pittura astratta che lo condurrà, verso la fine della lezione, ad elucubrazioni di carattere filosofico sul ruolo della donna nel rapporto di coppia, e sulle scelte di vita che i giovani debbono necessariamente ponderare.
Un professore di sistemi pittore e pure filosofo, ci sarebbe mancato che fosse stato anche ballerino e poi… Sorvoliamo che è meglio.
Mi giro nel sonno. Vado avanti.
Il mio compagno di banco Luca (già, non poteva certo mancare un compagno di banco) mi chiede di andare fuori istituto a mangiare un pezzo di pizza. Usciamo insieme a tre ragazzini che avranno più o meno venti anni. La situazione già mi innervosisce. Sicuramente saranno degli svampiti, ascolteranno musica di radio dj (della serie tunz-tunz-tunz), leggeranno riviste colorate, voteranno l’ultimo partito alla moda.
(In realtà uno dei tre è proprio così, ma sembra che anche la statistica lo ammetta come “eccezione che conferma la regola”).
Cominciamo a parlare, seduti in pizzeria, con me che sto un po’ in disparte. Cavolo…i ragazzini non sono poi così ragazzini, almeno non lo sono quanto lo fossi io alla loro età. E’ chiaramente frutto del sogno che abbellisce le cose. Quello con i capelli lunghi è di modi gentili, un po’ fuori dal suo tempo, certamente in controtendenza rispetto ai suoi coetanei. Parla di cinematografia impegnata, dice di leggere Balzac e, a differenza del suo aspetto sovversivo, mostra di avere le idee piuttosto chiare in quanto a democrazia e visione globale della vita. Che sia un’entità aliena, infiltrata in questa realtà sociale per carpirne il “modus vivendi”? La ragazzina ha una visione tutta sua della vita. Ma è comunque una visione chiara, frutto di un’analisi logica del suo presente e del suo futuro immaginato. Sono affascinato.
Mi volto a Luca e avvicinandomi gli dico: “e poi dicono che i bimbi di oggi sono tutti rincoglioniti…io alla loro età non ero così maturo”.
Luca mi guarda, e dietro il suo sguardo imperturbabile…pensa:” ma ti ‘eti deh… mi fai finì la pizza che poi devo andà a studià diritto”.
Beh, chi l’ha detto che i sogni debbano essere necessariamente perfetti?
Comunque questo sogno la perfezione la rasenta proprio, c’è addirittura il pizzaiolo amante di Pat Metheny, che mette sempre musica “buona” in pizzeria.
Ci manca solo che adesso si presenti un insegnante alla supergiovane, il personaggio della canzone di Elio e le storie tese, con casco e motoretta scoppiettante.
Attraversiamo la strada per tornare in classe, ed il rumore di un vespino (di quelli che negli anni ottanta non voleva comprare nessuno perché non erano alla moda…un PK50, insomma) ci arriva alle spalle. Sento un brivido corrermi lungo la schiena. “Non può essere… dai, non può essere… vedrai che sarà qualche studente che arriva in ritardo”.
Mi volto e vedo arrivare una ragazza che avrà si e no 30 anni: pelle scura con capelli corti, vespino (quello descritto prima) rosso, un grande casco nero calato in testa, l’immancabile zaino dei “bimbi” portato di traverso.
Luca, “Ciao Federica”.
Deve essere una nostra compagna di classe, e mentre lo penso i due ragazzini esordiscono: ”Buona sera professoressa… il compito sulle basi di dati è stasera o giovedì?”.
Lo sapevo, non potevo che aspettarmi questo tipo di situazioni da un sogno. C’ho pure la prof. di informatica che potrebbe essere mia sorella minore. Sembra che a questa prof. sia rimasta la stessa voglia di copiare di quando andava a scuola… solo che adesso cerca di copiare sguardi, situazioni… appunti passati.
Però… è proprio un bell’ambiente. Peccato solo che sia un sogno, altrimenti sai che bellezza.
Mentre attraversiamo il corridoio (il famoso quanto famigerato atrio dell’iti), chiedo a Luca quali materie ci aspettano ancora. Luca: “Ci sono due ore con lo Jozzo, si dovrebbe parlare di Svevo e del fanciullino del Pascoli, anche se i bimbi hanno detto che volevavo portare un po’ di merenda”. A ruota: ”poi c’è un’ora di buco, manca il Capperi, e poi un’ora con la Pini”.
Ohhhh… ma non vi siete accorti di niente? Vi sembra tutto normale?
A parte il fatto che anche nel sonno, continuo a chiedermi come faccia una persona sana di mente (ed io comincio ad avere dei seri dubbi sulla mia) a mettere insieme in un sogno una quantità così grande di particolari. Ma poi, nella scuola che conosco io (brrrrr) i professori non si sono mai chiamati per cognome, al massimo per soprannome (ehhh… il mitico atomino). La mia prof di italiano sembrava un personaggio dei promessi sposi, quella di inglese (la Mele)… lasciamo perdere.
Quindi, ricapitolando, come posso pensare che sia verosimile una scuola nella quale i professori si chiamano per nome, e con i quali magari si fa anche merenda. Eddai… non siamo mica a casa del Pacciani.
Entriamo in classe. C’è italiano.
L’impressione è quella di avere a che fare con una persona che non ci prende molto sul serio. Sembra che sia qui giusto perché deve esserci, e sembra che quella disponibilità al rapporto interpersonale e quella capacità di coinvolgerci nei suoi argomenti, sia andata via insieme alla vecchia insegnante.
Ma la timidezza fa anche di questi scherzi. Me ne accorgo subito io, che con la timidezza ho imparato a conviverci da tempo. In realtà questo prof. di italiano è una persona disponibile, che entra in sintonia con noi appena gli diamo il modo di farlo. Un bicchiere di vino, l’immancabile discussione che spazia sulla vita e sul mondo. Il feeling nasce istantaneamente. Una di quelle intese strane, basate sul rispetto e sulla stima reciproca, dove poco è detto ma è semplicemente “preso” da ogni parte.
Insomma, ormai non mi meraviglio più di niente in questo sogno. Potrebbe venire anche il Gabibbo a litigare con il preside, e l’esternazione per la mia sorpresa non supererebbe un accenno di sorriso.
Siamo arrivati all’ultima ora (però è strano…non sento quel desiderio irrefrenabile di scappare da lì). Manca solo inglese.
Avete presente un incubo all’interno di un sogno? Strano dite? E perché, tutto quello che ho raccontato sin ora vi sembra normale?
L’incubo dicevo. L’associazione inglese scuola mi fa scattare nella mente l’immagine della Mele. Una specie di matrona ottantenne, con il rossetto sui denti e con la voce e la pronuncia di un portuale al lavoro in una stiva.
Ci dovrà pur essere un difetto in questa scuola, un rimando ai miei più reconditi incubi?
Ci siamo, ora finalmente si svela la faccia della famosa Pini.
Entra una signora sui quarant’anni. Il fisico tonico, la faccia gentile così come i modi. Scambiando due chiacchiere scopro che è appassionata di mountain-bike, che il marito è appassionato di mare… e che a differenza dei metodi arcaici ai quali ero abituato, non ci fa imparare niente a memoria.
Parliamo tranquillamente, in inglese, di Oscar Wilde e del movimento punk che lei ha conosciuto a Londra in uno dei suoi primi viaggi. Insomma, la classica persona con la quale ti verrebbe voglia di parlare anche al bar, che si mette sul tuo piano… che ti insegna l’inglese solo quando si accorge che tu sei predisposto a farlo.
Insomma, è proprio un bel sogno non c’è che dire. Se proprio volessi renderlo perfetto, ma sarebbe chiedere troppo, mi sarebbe piaciuto che in questo bel sogno fosse presente mamma Piera. Vabbè, tanto io e lei sappiamo sintonizzarci anche in altri modi, però vedermi tra i banchi di scuola ed oltretutto contento, sicuramente le avrebbe fatto piacere.
Sento che nonostante i miei sforzi, non riesco più a dormire. Apro gli occhi e mi guardo in giro. Due cose mi rendono immediatamente la situazione strana: ricordo ancora tutto nitidamente, ed il giornale che è ancora aperto alla pagina dei promossi, reca sempre il mio nome.
Decido di accettare il fatto, e di non chiedermi altro. Troppe cose tutte insieme.
Sento però dentro di me una strana nostalgia, un sentimento che quasi rasenta la tristezza.
Certo tutto questo è strano, probabilmente frutto di tanti pensieri che mi hanno tormentato per anni.
Ma sento che mi sono, o forse sarebbe meglio dire mi sarei, affezionato a quel luogo.
Se questo sogno fosse stato realtà, se avessi avuto la fortuna di vivere un’esperienza come questa, credo che avrei voluto ringraziare un bel po’ di persone.
Avrei ringraziato Savina per il modo con il quale mi ha fatto apprezzare la matematica, e per il modo con il quale lei vede la vita.
Avrei ringraziato Marcello, perché mi ha aperto gli occhi sulle cose belle della vita. Cose belle che forse non sono i sistemi informatici, ma che senza dubbio sono i colori e l’umanità.
Avrei ringraziato Federica, che è riuscita in poco tempo ad abbattere quel muro che spesso interpongo tra me e le altre persone, e che ha creduto nelle mie potenzialità.
Avrei ringraziato Claudio, per il suo modo discreto ma sincero di dirti “guarda che sei in gamba, fallo vedere”.
Avrei ringraziato Patrizia, per la pazienza dimostrata con tutti quei tipacci e per l’entusiasmo trasmesso ogni volta che cercava di farci dire “What is this?”.
Monica, che con la sua costante disponibilità ha reso questi quattro anni più piacevoli.
Ma in una ipotetica realtà come quella descritta, sarebbero tante altre le persone che avrei ringraziato.
Per esempio il mio compagno di banco Luca, per l’amicizia che si è creata tra di noi in quattro anni.
Avrei detto un grazie grandissimo al gruppo dei “bimbi”, che mi hanno dato la possibilità di vedere le cose con un’ottica diversa da quella che abitualmente ho. Mi verrebbe da dire che anche grazie a loro sono cresciuto un po’ di più.
Ma il grazie andrebbe anche a quelle persone che per carattere e comportamento si sono allontanate molto da me. Perché è anche (soprattutto) con loro che ho avuto modo di scontrarmi, e quindi di confrontarmi.
Credo inoltre, che se questa fosse stata la mia realtà, non sarebbe potuto che essere questo il modo con il quale avrei ringraziato queste persone. Perché questo è il modo con il quale riesco ad esprimermi, così è come sono.
Insomma, adesso che ho accertato che questo è tutto un sogno, ad essere sincero sono dispiaciuto che sia finito.
Però che strana la vita…e pensare che a me, la scuola non è mai piaciuta.


Mirco Ondini 26 giugno 2003